Dispaccio

LA RASSEGNA STAMPA MENSILE DI TRAMA PLAZA

 

Il Dispaccio di Trama Plaza, a cura di Laila Bonazzi e scritto a più mani con la collaborazione di  Carmen Guarino, Michela Vietri e Valentina Alfieri vuole essere un aiuto a stare al passo: una breve rassegna stampa mensile con gli aggiornamenti su moda e sostenibilità, ma anche ispirazioni pop per sentirsi più leggeri, accenni d’arte e le notizie più importanti sulla crisi climatica (quelle spiegate in modo chiaro).

1. BRUXELLES CHIAMA, MA LA MODA È OCCUPATA SU UN’ALTRA LINEA

 

Evviva evviva, finalmente arriva qualche notizia su quali saranno le prossime mosse della Commissione Europea rispetto alla “Strategia europea per il tessile sostenibile e circolare”. A fine gennaio il Commissario europeo per l’ambiente Virginijus Sinkevičius ha invitato a Bruxelles un gruppo di attivisti, comunicatori ed esperti di moda sostenibile per lanciare una campagna di sensibilizzazione sul tema. Tra gli invitati c’era anche la giornalista Silvia Gambi di “Solo Moda Sostenibile”, che ha avuto modo di intervistare il Commissario. Quello che scopriamo dalla sua bella intervista è che nel corso del 2023 verrà lanciata la normativa sulla cosiddetta Responsabilità estesa del produttore (EPR – Extended Producer Responsibility), ovvero una strategia che utilizza incentivi finanziari per incoraggiare i produttori a progettare prodotti ecologici, ritenendo le aziende responsabili dei costi di gestione dei loro prodotti a fine vita. Un po’ vaghe sono state le risposte sul tema del greenwashing: sì, è in arrivo una normativa per regolamentare anche le affermazioni delle aziende in tema di sostenibilità, ma non si sa molto di più.

L’incontro si è poi focalizzato sul lancio della campagna ReSet The Trend, che dovrebbe coinvolgere i giovani consumatori a ripensare ai loro modelli di acquisto. In particolare, la campagna è rivolta solamente ai Paesi dove il consumo di fast fashion è ritenuto maggiore: Lituania, Romania, Grecia, Spagna, Belgio e Italia. Funzionerà? Da una parte continuare a cercare di “colpevolizzare” il consumatore rispetto ai suoi comportamenti finora ha dato pochi risultati, dall’altra l’immagine proposta non è esteticamente accattivante, se pensiamo al pubblico a cui si rivolge (giovani consumatori di fast fashion). In ogni caso condividiamo volentieri il messaggio con l’hashtag ufficiale #ReFashionNow.

(Testo di Laila Bonazzi)

Campagna Europea "Reset The Trend"

Foto – © https://environment.ec.europa.eu/topics/circular-economy/reset-trend_en

2. E QUINDI COME STA LA MODA ITALIANA?

 

Gennaio è sempre tempo di bilanci e previsioni e questo nuovo anno si è aperto con un articolo de “Il sole 24 ore” in cui leggiamo che per la prima volta la moda in Italia ha fatturato più di 100 miliardi di euro. Il Presidente della Camera nazionale, Carlo Capasa, ha persino definito il 2022 il migliore anno di sempre. Questa è una buona o cattiva notizia? Ovviamente, dipende da ciò che intendiamo per buona notizia: possiamo permetterci questi ritmi e questa sovrapproduzione? La stessa Federica Salto, giornalista di Vogue Italia, nella sua newsletter spiega chiaramente come le tendenze siano un’invenzione del marketing e delle riviste di moda. Ci racconta anche come la stessa redazione di Vogue stia cercando una via per trasformare la narrazione delle tendenze, concentrandosi non solo sulla stagionalità, ma sulla storia dei capi.

Rimanendo in tema di sovrapproduzione, ci sono altri due contributi di gennaio che vale la pena leggere, entrambi a tema sneakers, su LifeGate e di NSSmagazine: ogni anno ne vengono prodotte in media 25 miliardi di paia (si, 3 volte la popolazione mondiale!). Ha senso tutto questo? Eppur si vendono.

(Testo di Michela Vietri)

2.moda-italiana

Foto – © Warren Jones

3. CREDERE ALLE CERTIFICAZIONI È DA POLLI?

 

Nella puntata del 9 gennaio la trasmissione Rai Report ha mandato in onda un’inchiesta su una delle più grandi aziende di carne di pollo biologica, Fileni, che è famosa per il suo marchio biologico e per aver ricevuto nel 2022 la certificazione B Corp, perché giudicata un’azienda sostenibile, responsabile e trasparente. Dalle informazioni raccolte da Report la realtà però sarebbe totalmente diversa (qui la puntata integrale; qui la risposta dell’ente B Lab Europe sul caso).

Cosa c’entra questo con la moda? La certificazione B Corp è molto usata nel mondo della moda ed è diventata praticamente un sinonimo di sostenibilità e responsabilità a prescindere. Dobbiamo quindi smettere di fidarci di tutti i “bollini verdi” che circolano? Non proprio e non abbiamo al momento alternative a questo sistema, anche se il Prof. Paolo Landoni del Politecnico di Torino ha scritto un interessante contributo per ridimensionare il valore delle certificazioni, spesso rincorse dalle aziende più per un ritorno di immagine che per genuino interesse per la sostenibilità. Da parte del consumatore non rimane che continuare a informarsi, porsi domande e usare la testa.

(Testo di Maria Carmela Guarino)

Certificazione B Corp

Foto – © bcorporation.eu

4. ADDIO A VIVIENNE WESTWOOD, L’ULTIMA RIBELLE – COERENTE – DELLA MODA

 

Non abbiamo ancora avuto modo di renderle tributo nel nostro dispaccio: è mancata a fine dicembre, a 81 anni, la stilista e vulcanica creativa Vivienne Westwood, famosa tanto per il suo stile quanto per le sue battaglie a favore dell’ambiente e di una moda più equa. È stata lei la prima a pronunciare questo mantra: “Compra meno, scegli bene e fallo durare a lungo”. Se non sapete molto di lei vi consigliamo due articoli online, di Elle e IoDonna.

Fino alla fine la stilista inglese ha usato la sua immagine per portare avanti importanti battaglie politiche e ambientali e ancora oggi, dopo la sua morte, la voce di Vivienne risuona attraverso la piattaforma Climate Revolution e la Fondazione che porta il suo nome. Contemporaneamente è stato interessante tornare a leggere un’intervista a Stella McCartney, un’altra designer preparata sul tema della sostenibilità e coerente con le proprie scelte sul brand fin da tempi non sospetti: la potete leggere online su Vogue Italia.

(Testo di Valentina Alfieri)

Vivienne Westwood Foundation

Foto – © theviviennefoundation.com

1. LA MODA A COP27, COSA SI SONO DETTI IN EGITTO?

 

Avrete sicuramente letto qualche riassunto dei risultati ottenuti alla Cop27 in Egitto. In breve, è stato raggiunto un accordo per creare un fondo di risarcimento economico (loss and damage) per i Paesi più colpiti dalla crisi climatica, ma non sono stati fatti significativi passi avanti sulla riduzione delle emissioni di Co2. Un mezzo successo o un mezzo fallimento, a seconda dei punti di vista dei tanti esperti che hanno commentato questa Cop.

Vi sarete chiesti se l’industria moda fosse presente in Egitto a questa super conferenza. Ebbene c’era: come perdere questa importante occasione di visibilità globale? Daniele Comunale su Lifegate ha scritto un piccolo riassunto dei grandi nomi presenti, da Brunello Cucinelli alla responsabile della sostenibilità del gruppo del lusso Kering Marie-Claire Daveu.

Contemporaneamente anche la Global Fashion Agenda, l’organizzazione no profit danese che promuove la collaborazione tra i protagonisti del settore per un’industria più sostenibile e a minor impatto, ha organizzato diversi eventi con UNEP – United Nations Environment Programme, invitando, come loro consuetudine, molti rappresentanti delle aziende per parlare del sistema moda, con particolare riferimento alla decarbonizzazione, al sistema circolare e al problema energetico. È possibile rivedere i panel (in inglese) da questa pagina.

(Testo di Laila Bonazzi)

Cop27

Foto – © UNClimateChange/Flickr

2. IL FAST FASHION ANCORA AGLI ORRORI DELLE CRONACHE

 

Lungi da noi spendere una parola buona in favore del cosiddetto “fast fashion”, ma sembra che ultimamente si tenda a prendere piccole decisioni contro questo sistema per avere un qualche genere di visibilità. Per esempio Vestiaire Collective, la piattaforma di rivendita di moda vintage tra privati, ha deciso di non accettare più capi e accessori di marchi considerati fast fashion, causando reazioni di diverso tipo sull’utilità od opportunità di questa scelta (i capi fast fashion hanno comunque un bassissimo valore di rivendita per Vestiaire Collective).

Nel frattempo Greenpeace Germania ha condotto una ricerca con tanto di analisi di laboratorio sui capi di Shein rispetto ai tipi di sostanze chimiche e alle quantità presenti, dimostrando che vanno ben oltre il limite consentito dalle leggi europee. Ora, la vera domanda sarebbe come sia possibile che centinaia di questi capi arrivino dentro i confini dell’UE quotidianamente senza che nessuno dica nulla.

(Testo di Laila Bonazzi)

Shein

Foto – https://www.nssmag.com/it/fashion/31505/vestiaire-collective-fast-fashion

3. LUSSO ITALIANO NON È SEMPRE SINONIMO DI SOSTENIBILITÀ

 

È difficile leggere analisi serie di sostenibilità e trasparenza riguardo i marchi del lusso italiani sui nostri giornali. Questo perché sia i quotidiani che le riviste dipendono pesantemente dalla pubblicità pagata da questi marchi sulle loro pagine. È quindi interessante segnalare questo articolo di Altreconomia (una rivista indipendente che raramente si occupa di moda), nel quale viene ripresa la questione della filiera dei prodotti in pelle per i quali l’Italia è famosa. Da tempo la Camera Nazionale della Moda Italiana spinge per un sistema più trasparente ed equo – da ultimo organizzando il Venice Sustainable Fashion Forum un mese fa – ma è chiaro che la strada è ancora lunga.

Tanto c’è bisogno di giornalismo serio sulla moda sostenibile che la nostra amica Silvia Gambi di SoloModaSostenibile ha lanciato una newsletter mensile a pagamento che sta avendo un certo successo tra gli addetti ai lavori: il primo numero era dedicato al suo cavallo di battaglia, una panoramica sulla selezione e raccolta degli abiti usati.

(Testo di Laila Bonazzi)

rassegna stampa trama plaza

Foto by Cherie Birkner on Unsplash

1. GREENWASHING: CHI FA LE REGOLE?

 

Da parecchi mesi sentiamo spesso parlare di possibili normative sulla comunicazione della sostenibilità, che mettano dei paletti a ciò che un’azienda può o non può proclamare, per scongiurare il rischio di greenwashing (ovvero la pratica di fare affermazioni false, incomplete o fuorvianti sul tema della sostenibilità dei prodotti).
Il 30 settembre, con una news sul suo sito aziendale, Kering – il gruppo di cui fanno parte marchi come Gucci, Bottega Veneta, Saint Laurent, Pomellato, DoDo, per citarne alcuni – ha annunciato la pubblicazione di un nuova serie di standard – la quinta dal 2018 – per le materie prime e i processi per una produzione sostenibile. Il documento di circa 200 pagine comprende anche una parte dedicata alle modalità di comunicazione: potete leggere una sintesi della sezione “Guidance for Sustainability Claims” nell’articolo di Silvia Gambi su Solo Moda Sostenibile . Il dubbio rimane se sia efficace che un’azienda o un grosso gruppo si diano da soli delle regole, per quanto ben scritte e dettagliate: un controllato può anche essere il proprio controllore?
Sicuramente da consumatori dovremmo riflettere maggiormente sui messaggi che riceviamo in tema sostenibilità. Quali informazioni può o deve veicolare una campagna di comunicazione che parla di sostenibilità affinché l’azienda non sia accusata di ambientalismo di facciata? Per Quantis, società che si occupa di consulenza ambientale, un buon “Green claim” deve comunicare informazioni specifiche, misurabili, pertinenti, comprensibili e accessibili. Si tratta di indicazioni per le aziende, ma che possono essere utili anche a noi consumatori per capire chi davvero lavora per un cambiamento sostenibile e chi invece lo fa solo a parole, finché, ci auguriamo, non ci saranno leggi più stringenti in materia di greenwashing.
Una nuova legge potrebbe arrivare in Francia nel 2023: secondo una proposta tutti i capi di abbigliamento dovranno avere un’etichetta contenente informazioni sull’impatto climatico della produzione del capo. Sul calcolo di questo impatto ci sarebbero altri ragionamenti da fare, ma quest’etichetta sarebbe un bel passo avanti, soprattutto se, come si dice nell’articolo in questione, una legge simile dovesse essere applicata dall’intera Unione Europa entro pochi anni. Interessante in questo senso è anche l’intervista rilasciata a Vogue dal commissario europeo per la sostenibilità: avreste mai pensato di leggere mai qualcosa del genere in questa rivista-icona della moda di lusso? Forse, davvero, i tempi stanno cambiando.

(Testo di Carmen Guarino in collaborazione con Laila Bonazzi)

Greenwashing: chi fa le regole?

Foto – www.kering.com/it/il-gruppo/

2. SERVONO PIÙ REGOLE E MENO SHAMPO SOLIDO, OPPURE ENTRAMBI?

 

La domanda sintetizza il dibattito sollevato dal giornalista ambientale Nicolas Lozito nella sua newsletter dedicata alla crisi climatica, Il colore verde: potete leggerla cliccando qui. Lozito ripercorre alcune notizie di attualità (le elezioni in Italia e in Brasile, il discorso di Papa Francesco ad Assisi a una platea di giovani economisti, le affermazioni di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food) ed evidenzia come nella situazione che il mondo si trova oggi a fronteggiare non è tanto importante convincere le persone a consumare in maniera più consapevole se questo cambiamento non va di pari passo con un’agenda politica che prenda seriamente la crisi climatica. In effetti, a lungo la discussione sulla sostenibilità si è concentrata quasi unicamente sui consumatori finali e sulle loro scelte, senza mettere al centro del dibattito chi ha creato questo sistema di produzione ormai insostenibile, in assenza di leggi che lo regolamentassero.
Contemporaneamente su Vogue Business si cita l’invenzione di alcuni plug-in – ovvero estensioni dei browser di ricerca che raccolgono informazioni online sulle aziende – che addirittura dovrebbero aiutare i consumatori a indirizzarsi verso acquisti più sostenibili. La tecnologia sarà di certo un grande aiuto, ma la cosa fondamentale è sempre esercitare il pensiero critico per fare scelte consapevoli. E l’ormai imminente Black Friday sarà una buona occasione per testare non tanto queste nuove soluzioni tecnologiche ma soprattutto le nostre convinzioni.
Trama Plaza continua il suo lavoro di sensibilizzazione sui consumi di moda, ma nel mentre, come suggerisce Lozito, urgono soluzioni politiche di alto livello: al punto 5 parliamo appunto di Cop27.

(testo di Carmen Guarino in collaborazione con Laila Bonazzi)

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Foto – https://unsplash.com/  autore: Lawrence Kayku

3. DI COSA SI PARLA QUANDO SI PARLA DI ULTRA FAST FASHION: IL CASO SHEIN

 

L’inchiesta del mese è sicuramente quella di Channel 4 e del suo documentario Inside the Shein machine, visibile qui se risiedete in Gran Bretagna. Se non potete vederlo, trovate alcune parti di documentario su tiktok e moltissimi articoli e post che ne parlano in rete. Vi segnaliamo quello di Lifegate e di Marieclaire uk. L’inchiesta è svolta in una delle fabbriche a cui Shein appalta la produzione e rivela le disastrose condizioni di lavoro degli operai e dei loro salari irrisori. Visto il clamore suscitato dal documentario, non si è fatta attendere la risposta dell’azienda Shein, che ha dichiarato di aver avviato un’indagine interna per verificare che tutti i propri fornitori seguano le disposizioni del codice di condotta. La trovate in questo bell’articolo di nssmag.  Chi invece del benessere dei propri lavoratori si interessa molto e, anzi, lo considera un valore necessario, è il brand SEP Jordan, che a fine settembre ha aperto il suo primo negozio italiano a Milano, ricco di capi e accessori ricamati a mano da rifugiati in Giordania. Trovate qui un’intervista di Fashion Times alla fondatrice del marchio, Roberta Ventura, che ne racconta l’idea creativa e il progetto sociale. Rimanendo in tema, qualora ve la siate persa, vi segnaliamo nuovamente la campagna di raccolta firme Good Clothes Fair Pay promossa da diverse realtà che si occupano di sostenibilità, tra cui Fashion Revolution, per chiedere un salario dignitoso (e non solo un salario minimo!) per chi lavora nella produzione dell’abbigliamento. Ci vogliono 3 minuti per firmare, non siate pigri!

(testo di Michela Vietri in collaborazione con Laila Bonazzi)

Rassegna Stampa Shein

Foto – www.channel4.com “Inside the Shein machine”

4. COM’È ANDATO IL VENICE SUSTAINABLE FASHION FORUM?

 

A ottobre ci eravamo lasciati parlando del Forum Internazionale di Venezia sulla sostenibilità: com’è andato? È stato ricco di spunti di riflessione e anche di azione, potete leggere un resoconto di ESG360 a questo link. Il forum si è svolto il 27 e il 28 ottobre, due giornate dedicate a due tematiche distinte: nel primo giorno sono stati analizzati gli impatti ambientali e sociali del sistema moda, mentre nel secondo si è parlato delle responsabilità degli attori della filiera. Durante la seconda giornata è stato anche presentato il progetto del consorzio Re.Crea, fondato da Dolce&Gabbana, MaxMara Fashion Group, Gruppo Moncler, Gruppo OTB, Gruppo Prada, Ermenegildo Zegna Group con il coordinamento di Camera Nazionale della Moda Italiana, per promuovere la ricerca e lo sviluppo di soluzioni e tecnologie di riciclo. Trovate più informazioni a riguardo in questo articolo del Corriere. In sostanza, la situazione è complessa, il momento storico estremamente complicato, il tempo stringe…

(testo di Michela Vietri in collaborazione con Laila Bonazzi)

Rassegna Stampa Venice Sustainable Fashion Forum

Foto – Venice Sustainable Fashion Forum

5. CI LEGGIAMO A DICEMBRE DOPO LA COP27

 

Ci salutiamo parlando dell’evento più importante del prossimo mese. Dal 6 al 18 novembre, infatti, l’Egitto ospiterà la Cop27 (Conference of the Parties), l’importantissimo meeting sul clima delle Nazioni Unite. È un evento complicato da seguire, ricco di riflessioni tecniche non sempre facili da capire, quindi ringraziamo La Svolta per questo bell’articolo riassuntivo. Ma non solo. Se avete un po’ di tempo per approfondire, consigliatissimo è questo articolo di Naomi Klein sul Guardian, in cui definisce un tentativo di “Greenwashing a police state” la scelta di svolgere la conferenza in Egitto. Ne parla anche Nicolas Lozito su Repubblica in un articolo in cui spiega perché ha deciso di non andare di persona a seguire la conferenza.
Non ci resta che seguire le notizie sulla conferenza e aggiornarci nel prossimo dispaccio!

(testo di Michela Vietri in collaborazione con Laila Bonazzi)

Rassegna Stampa Cop27

Foto – https://cop27.eg

1. LA SOSTENIBILITÀ È DIVENTATA UN BIGLIETTO OBBLIGATORIO DA TIMBRARE? Il caso della Milano Fashion Week

 

Apriamo il nostro dispaccio del mese di settembre con i “CNMI Sustainable Fashion Awards 2022”, che si sono svolti al Teatro alla Scala a chiusura della Milano Fashion Week. L’evento è stato organizzato per premiare realtà virtuose che si sono distinte nell’impegno sulla sostenibilità. Qui trovate un articolo di Vanity Fair sulla serata con la lista di tutti i vincitori, nonché i look sfoggiati dai numerosissimi ospiti. Questi premi sono una diretta discendenza degli ex “Green Carpet Fashion Awards”, organizzati da Livia Firth, con a capo di tutto la Camera Nazionale della Moda Italiana, i cui membri, ovvero i grandi marchi, presenziano ai premi, spesso rubando la scena a tutto il resto. Tra i premiati c’è anche Timberland, a cui è stato assegnato il “The Ellen McArthur Foundation Award for Circular Economy”. Qui trovate un’interessante intervista di Vogue alla super Ellen McArthur in cui racconta del premio e del suo avvicinamento al mondo della sostenibilità. Rimane una domanda: qual è il senso di organizzare celebrazioni così sfarzose per premiare i brand virtuosi nella sostenibilità se in tutta la settimana non se ne è parlato altrove? Trovate una bella riflessione a riguardo in questo articolo di Vogue Business in cui ci si chiede perché i programmi di sostenibilità, sensibilizzazione ed educazione, siano stati lasciati in gran parte fuori dalle passerelle, che invece dopo il Covid sono tornate in grande stile (dimenticandosi di tutti i proclami del “faremo meno collezioni”).
Un’altra iniziativa che si è svolta durante la Milano Fashion Week è il progetto “Designers for the planet”, dedicato alla moda sostenibile italiana. Dal 20 al 26 settembre 5 brand emergenti che fanno un buon lavoro in termini di sostenibilità e impegno sociale hanno esposto le proprie linee all’ADI Design Museum. Complimenti a: Acidalatte, Bennu, Endelea, Dennj e Atelier Florania. Vi consigliamo di dare un occhio al loro lavoro.
Si prospetta invece molto interessante il primo summit internazionale dedicato alla transizione sostenibile del settore moda in programma il 27 e 28 ottobre, presso Fondazione Giorgio Cini a Venezia. Il “Venice Sustainable Fashion Forum 2022” si articolerà in due giorni: il 27 ottobre è intitolato “Just Fashion Transition” e il 28 ottobre “The Values of Fashion”. Questa prima edizione del forum punta sicuramente a diventare l’evento di riferimento annuale sulla sostenibilità nel settore moda, con focus, dibattiti e presentazione di dati utili per comprendere a che punto siamo con il raggiungimento degli obiettivi. Staremo a vedere.

(testo di Michela Vietri in collaborazione con Laila Bonazzi)

Milano Fashion Week 2022

2. L’ANNUNCIO DI PATAGONIA, UNA SOLUZIONE ESTREMA A FAVORE DELL’AMBIENTE: “Il pianeta Terra è ora il nostro unico azionista”

 

Il brand di abbigliamento sportivo Patagonia ha trasferito il 98% delle sue quote a un’organizzazione no-profit di nuova costituzione chiamata Holdfast Collective, che riceverà tutti i profitti dell’azienda e utilizzerà i fondi per combattere il cambiamento climatico. L’annuncio del fondatore e proprietario Yvon Chouinard, avvenuto attraverso un’acutissima operazione di marketing in cui lo vediamo scrivere di suo pugno una lettera (non possiamo non citarne l’incipit “Earth is now our only shareholder”), è disponibile interamente sul sito. Qui trovate un articolo uscito sul The New York Times, ma vi segnaliamo anche questo contributo di Io Donna.
L’interrogativo è: questa è una soluzione estrema, forse il punto di arrivo naturale di un brand come Patagonia, ma rimarrà un caso unico. Gli altri dove stanno andando?

(testo di Michela Vietri in collaborazione con Laila Bonazzi)

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3. GLI ACQUISTI SECOND HAND SONO DAVVERO SEMPRE SOSTENIBILI?

 

Si è concluso anche settembre, il mese del second hand e del vintage. Sono state lanciate diverse challenge con l’obiettivo di normalizzare gli acquisti di abbigliamento di seconda mano (o preloved) ma sono anche emersi alcuni spunti di riflessione sul tema. Dare una seconda opportunità ai capi di seconda mano è sicuramente una scelta più sostenibile rispetto all’acquisto di capi nuovi. E sembra una buona notizia il dato che il mercato second hand stia crescendo a una velocità tripla rispetto a quello dell’abbigliamento di prima mano, come riporta SoloModaSostenibile citando una ricerca di ThredUp. Ma il punto da sottolineare è che si tratta pur sempre di consumi in crescita. Lo stesso articolo, infatti, inizia proprio mettendoci in guardia: se scegliere il second hand non va di pari passo con l’abbandono dell’acquisto compulsivo, non può essere un modello di consumo davvero sostenibile. Allora come approcciarsi in maniera consapevole al second hand? Qualche idea in questo articolo di Vogue.

(testo di Carmen Guarino in collaborazione con Laila Bonazzi)

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4. “REALMENTE” SOSTENIBILI: DAGLI OUTFIT DELLA REGINA ELISABETTA ALLE INIZIATIVE DI RE CARLO III

 

L’8 settembre è morta Elisabetta Il. Un regno durato oltre 70 anni che l’ha vista destreggiarsi tra momenti pubblici e turbolente vicissitudini familiari. Da queste ultime è comunque riuscita a districarsi, conquistando la simpatia del pubblico internazionale. È impossibile comunque non notare come al successo dell’immagine di Elisabetta abbiano contribuito il suo look, i dettagli di stile studiatissimi e persino la vastissima gamma di colori presente nel guardaroba reale. Elisabetta si è sempre dimostrata attenta a riflettere anche attraverso i suoi outfit lo spirito dell’epoca che attraversava. E sembra che la sua eredità sia stata raccolta da Carlo III, definito – come in questo articolo del Sole24Ore – anche il re della moda sostenibile. Se i più sono scettici sul fatto che il nuovo re possa raggiungere Elisabetta II nel cuore dei sudditi, forse le sue iniziative in ambito sostenibilità potranno aiutarlo. Per esempio, la “Dumfries House Declaration”, una campagna in dieci punti per sostenere una produzione e un commercio sostenibile della lana. Oppure la Fashion Taskforce, una piattaforma di iniziative per rendere l’industria privata più sostenibile.
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(testo di Carmen Guarino in collaborazione con Laila Bonazzi)

Regina Elisabetta

5. LA MODA (IN)SOSTENIBILE IN PRIMA SERATA

 

Concludiamo il nostro Dispaccio di settembre segnalandovi che è possibile rivedere su RaiPlay la prima puntata del programma “Indovina chi viene a cena” dal titolo “Cambio pelle”, andata in onda sabato 3 settembre alle 21.20 su Rai 3. “Indovina chi viene a cena” è il programma di inchiesta sull’ambiente e i modelli alimentari sostenibili di Sabrina Giannini, che ha scelto di dedicare la prima puntata all’impatto della produzione e della tintura dei capi d’abbigliamento e della concia della pelle. Non vorremmo fare spoiler, ma come dice già il comunicato stampa di lancio del programma, il reportage mostra come i brand, dall’alta moda al fast fashion, siano ancora abbastanza lontani dall’aver creato un modello sostenibile per le persone, l’ambiente e gli animali. In ogni caso, ci fa piacere notare come un argomento ancora tutto sommato poco noto sia stato affrontato in prima serata e di sabato sera.

(testo di Carmen Guarino in collaborazione con Laila Bonazzi)

Indovina chi viene a cena

1. UNA GIORNATA NEL MAGAZZINO DI HUMANA

 

Humana People to People nasce nel 1977 in Danimarca a opera di un gruppo di insegnanti della Travelling Folk High School. La no profit inizia la sua storia portando beni di prima necessità in Mozambico, finché gli viene chiesto di smettere di regalare i vestiti per non creare dipendenza in un popolo impegnato in uno sforzo di libertà e autonomia. Un momento di svolta importante. Così cambia il modello di lavoro e prende forma quello attuale: raccolta e rivendita di vestiti usati per finanziare programmi di cooperazione internazionale.

Oggi Humana People to People è presente in 45 Paesi e ha attivato oltre mille progetti di sviluppo. In Italia esistono 5 impianti di raccolta e smistamento e 11 negozi, che rivendono al pubblico gli abiti second hand raccolti.

Ecco il viaggio di un abito che potete comprare in un negozio di Humana People to People Italia.
La maggior parte dei capi vengono recuperati nei loro cassonetti in strada e trasportati nei centri di raccolta e smistamento, dove sono pesati in modo preciso, per tenere traccia delle quantità recuperate. Nel magazzino le “smistatrici” fanno prima una verifica visiva per rimuovere materiali estranei e poi suddividono gli indumenti in categorie merceologiche basate su tipologia, qualità e stagionalità dei capi. Esiste per esempio anche una categoria denominata “Tropical Mix”, con vestiti destinati all’Africa (circa 600 mila pezzi all’anno) che rispettano le usanze, il clima e i costumi locali. Questi capi vengono distribuiti attraverso canali locali, creando occupazione e non assistenzialismo.
Tornando in Italia, all’interno dello stabilimento di Pregnana Milanese dove siamo stati, dopo lo smistamento i vestiti subiscono un processo di igienizzazione, per poi ripartire verso i negozi di Humana. I capi che non possono essere venduti, sono destinati al recupero energetico (ad esempio alla produzione di materiali per il cappotto termico edilizio).
Potete trovare qui i comuni dove sono dislocati i 5 mila contenitori per donare i vostri vestiti usati.
In questi ultimi anni sono nate diverse piattaforme dove poter vendere i propri abiti e avere un ritorno economico, ma immaginate il ritorno di soddisfazione nel far parte di un progetto di sviluppo sociale che sostiene le persone e migliora l’ambiente!

(testo di Erica Brunetti, presidente Trama Plaza)

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2. FIRMA PER IL SALARIO DIGNITOSO NELLA MODA

 

Nessuno di noi dovrebbe voler indossare qualcosa che inquini il Pianeta. E nemmeno che affami le persone che l’hanno confezionato. Eppure gran parte dei 70 milioni di lavoratori della filiera moda e tessile non sono pagati il giusto. Di fatto non sono pagati abbastanza per soddisfare i propri bisogni primari. Ricevono salari minimi – come decretato dalle leggi dei Paesi produttori – che sono, però, quasi sempre sotto la soglia di povertà. Per questo l’organizzazione Fashion Revolution da molti anni si batte per richiedere un “salario dignitoso” obbligatorio, ovvero una retribuzione che permetta ai lavoratori, di cui moltissime sono donne, di vivere dignitosamente insieme alle loro famiglie. La nuova campagna di raccolta firme di Fashion Revolution si chiama Good Clothes Fair Pay e ne servono 1 milione per promuovere una legislazione che costringa le aziende di moda, tessili e di calzature a fare progressi concreti sul salario dignitoso. Si può firmare cliccando qui. Le iniziative volontarie dei marchi non si sono rivelate efficaci: è tempo che sia varata una vera regolamentazione. «Quando la paga dignitosa viene calcolata da associazioni indipendenti» ha spiegato Marina Spadafora, coordinatrice italiana di Fashion Revolution, «viene constatato che dovrebbe essere di quattro o cinque volte superiore a quella minima. E l’impatto che una retribuzione equa avrebbe sui prezzi va dall’1% al 4%, un costo che ci possiamo permettere per evitare che i nostri vestiti creino fame e povertà». Quindi firmate e diffondete.

(foto © Good Clothes Fair Pay)

Good Clothes, Fair Pay

3. COME SIAMO MESSI A TRASPARENZA?

 

La nuova edizione del Fashion Transparency Index uscita a luglio non ha portato particolari buone notizie. La coordinatrice della ricerca, Delphine Williot, ha tenuto a sottolineare un punto a Vogue Business: “Questo indice non è una classifica di brand in base alla sostenibilità. Se un marchio è in buona posizione significa solo che è trasparente, ovvero che condivide informazioni su diversi aspetti della produzione”. Questa precisazione nasce dal fatto che alcune aziende hanno sbandierato la propria posizione nell’indice come prova di sostenibilità, ma non è affatto così. In generale, sono stati fatti pochi progressi dallo scorso anno. Per molti brand la filiera rimane un buco nero che riescono difficilmente a percorrere all’indietro per intero. Gli aspetti considerati nella ricerca sono decine, dal benessere animale, alla tutela della biodiversità, alle pratiche di acquisto fino a quelle di riciclo. I buchi maggiori di dati riguardano i volumi (ma quanto diavolo produciamo effettivamente?), la lista dei fornitori e i diritti dei lavoratori (qui un riassunto in comode slide).

Ne ha parlato anche Silvia Gambi nella sua newsletter, aggiungendo qualche considerazione sull’ultimo report della Sustainable Cotton Challenge. Sempre a tema cotone, segnalo il bell’articolo di Ilaria Chiavacci, che spiega come la coltivazione intensiva stia prosciugando il lago Aral in Uzbekistan. Una storia che vi suona famigliare? Ne parliamo anche noi nel monologo La vita segreta dei vestiti all’interno dell’opera GIRALAMODA, che sarà di nuovo in scena il 2 ottobre a Bologna nelle stanze di Palazzo Re Enzo, in occasione del Festival Rivestimi di Terra Equa.
E, infine, ma perché non ricicliamo ‘sti benedetti tessuti’ visto che risparmieremmo 4 milioni di tonnellate di Co2 e creeremmo 15mila nuovi posti di lavoro solo in Europa?

(foto © Fashion Revolution)

Fashion-Transparency-Index

4. UN BUON ESEMPIO DAL MONDO DELL’ARTE

 

Collaborare tra aziende e condividere buone pratiche è l’unica soluzione possibile affinché un settore produttivo diventi sostenibile. La moda non è bravissima in questo, troppo impaludata tra invidie, segreti industriali e paura della trasparenza. Due anni fa, invece, è stato il mondo dell’arte commerciale, quello delle gallerie per intendersi, a volersi dare una mossa in vista del traguardo sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile del 2030. Alcuni grandi galleristi inglesi si sono chiesti: perché non stiamo facendo la nostra parte e, soprattutto, quanto inquinano le nostre attività? Hanno quindi fondato la Gallery Climate Coalition, che oggi conta 800 membri in tutto il mondo, tra gallerie, fondazioni, artisti, fornitori di servizi, con un solo obiettivo: chiunque può diventare membro, ma deve impegnarsi a dimezzare le proprie emissioni e diventare zero waste entro il 2030. Tutti insieme, però, condividendo soluzioni provate o nominativi di fornitori più sostenibili. Ne ho scritto su Lifegate perché penso che la Gallery Climate Coalition sia un esempio di concretezza e collaborazione davvero efficace. Tra di loro c’è anche Palazzo Strozzi a Firenze, dove il 22 settembre inaugura la grande personale di Olafur Eliasson, artista in grado di sfidare le nostre percezioni e da sempre impegnato a favore del Pianeta. Mi sento davvero di consigliarla ad appassionati d’arte contemporanea e non solo (dal 3/11 ci sarà anche una sua installazione inedita al Castello di Rivoli, Torino). Nel frattempo, il Corriere ci consiglia 5 mostre per l’estate a tema ambiente.

(foto © Smoking Dogs Films, courtesy Smoking Dogs Films and Palais de Tokyo, Paris, ph. Aurelien Mole)

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5. RIPASSO DI STORIA CON QUALCHE ANNIVERSARIO

 

Se siete arrivati fin qui, oltre alla sostenibilità, siete appassionati di moda. Io non lo sono sempre stata, ma ho imparato ad apprezzarla lavorando nella redazione di un prestigioso femminile. Oggi mi piace leggere le analisi di Federica Salto, di cui consigliamo la newsletter La moda, il sabato mattina, perché riesce davvero a comunicare il suo amore per questo settore. Soprattutto, però, mi piace la storia del costume e in questo senso mi sento di suggerirvi due penne, che sui social si danno parecchio da fare per divulgare aneddoti e analisi di cosa rappresenti questo pazzo pazzo mondo che va oltre gli abiti e le borsette. Andrea Batilla, autore e consulente per aziende, e Antonio Mancinelli, giornalista e scrittore, nonché mio ex caporedattore.

Tutto questo per dire che a luglio ci sono state delle ricorrenze storiche importanti, su cui vale la pena rileggere qualcosa. I 25 anni dalla morte di Gianni Versace, un grande giro di boa per la storia della moda italiana: ha ricordato quel periodo il fratello Santo Versace sul Corriere. A Firenze, invece, sono stati celebrati i 70 anni da quello che convenzionalmente viene considerato il debutto internazionale del Made in Italy: la sfilata di moda a Palazzo Pitti del luglio 1952. Che cosa abbia significato quell’evento, di fatto la prima vera sfilata italiana, lo spiega bene Il Sole 24 Ore in questo articolo. Infine, ha compiuto 88 anni Giorgio Armani (qui una bella gallery storica su People): come sempre lo stilista si è raccontato al Corriere, unico giornale italiano a cui Re Giorgio rilascia interviste in queste occasioni. Un paio di mesi fa ha anche lanciato un sito apposito per raccontare il suo impegno per il sociale e l’ambiente, si chiama Armani Values. Una strategia di comunicazione simile a quella di Gucci e Valentino, che hanno creato portali dello stesso genere.

( foto © Federica Salto)

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6. BUONE VACANZE! VOLETE I COMPITI?

 

Luglio è tradizionalmente il mese del Plastic Free (una di quelle strambe ricorrenze che dovrebbero aiutarci a migliorare i nostri comportamenti): quindi portate in vacanza la filosofia del “senza plastica” con qualche consiglio ad hoc.

Se li avete persi, potete vedere, leggere o ascoltare:

Buone vacanze, la rassegna torna a fine settembre.

E ricordatevi di non portare a casa conchiglie dalla spiaggia, come spiega il National Geographic.

Laila Bonazzi

(foto © Volodymyr Hryshchenko)

Volodymyr Hryshchenko

1. GLI STATI GENERALI DELLA MODA (IN)SOSTENIBILE A COPENAGHEN

 

Serve a qualcosa oppure no? È dal 2009 che tutti si chiedono se l’organizzazione no profit Global Fashion Agenda riesca veramente a fare pressione sui brand di moda per una svolta a impatto positivo sul pianeta e sulle persone. La risposta non l’abbiamo certo noi, ma sicuramente segnaliamo che il Global Fashion Summit 2022 a Copenaghen ha riservato qualche sorpresa. Questo evento è una specie di riunione plenaria dell’industria moda per parlare di sostenibilità. Sullo stesso palco si sono ritrovati grandi brand, colossi del fast fashion e del lusso, esponenti della filiera, giornalisti e organizzazioni no profit. Tutti hanno ben chiari gli obiettivi da raggiungere: decarbonizzazione della filiera, circolarità dei materiali e migliori condizioni di lavoro e di salario per tutti i lavoratori (sono circa 70 milioni quelli che lavorano nella filiera moda). Già, ma come arrivarci a questi obiettivi? Se lo chiede la nostra penna di riferimento, Silvia Gambi di Solo Moda Sostenibile, che era proprio a Copenaghen a moderare un panel (brava Silvia!): cliccate qui per leggere il suo riassunto o qui per leggere quello di Vogue Business (in inglese). Tra gli annunci più chiacchierati, la collaborazione tra il colosso cinese del super fast fashion Shein e la ong The Or Foundation, che lavora molto duramente in Africa per combattere i problemi legati ai rifiuti tessili e ai quintali di abbigliamento usato spedito qui dai Paesi occidentali. Un’organizzazione serissima fondata dall’americana Liz Ricketts. Ebbene proprio loro prenderanno da Shein 15 milioni di dollari di sovvenzioni. È giusto oppure no? Tutti hanno voluto dare la propria opinione (molto contraria Livia Firth di Ecoage). Se anche si tratta di greenwashing da parte di Shein (che non ha nessuna intenzione di modificare il proprio modello di produzione), di certo The Or Foundation saprà fare buon uso di questi soldi.

2. I GUAI DELL’HIGG INDEX E IL PROBLEMA DELLE MISURAZIONI

 

L’Higg Index è una metodologia di valutazione della sostenibilità dei materiali utilizzata da molti brand di moda. È davvero molto diffuso. Beh, sta passando un brutto periodo. Dopo qualche critica sporadica, un articolo del New York Times ha riassunto le maggiori obiezioni, tra cui il fatto di favorire le fibre sintetiche rispetto a quelle naturali (che utilizzerebbero più acqua e pesticidi) e di non tenere in considerazione il trattamento dei lavoratori nelle sue valutazioni. Questo a grandi linee. L’articolo ricorda anche che, in realtà, il problema di base è la mancanza di dati approfonditi e universalmente accettati in tema sostenibilità della moda. Sembra un dettaglio, ma per un’azienda è davvero molto importante fissare degli obiettivi misurabili da raggiungere. Come faccio a sapere se sto diventando più sostenibile se non posso misurare i progressi? E se io li misuro in modo diverso da un altro brand, come possono capirci qualcosa i consumatori? Qualche considerazione sul sito di Elle Italia se volete approfondire. Non dimentichiamo che è in arrivo (con calma) anche la nuova strategia europea per il tessile sostenibile, ben spiegata qui su EconomiaCircolare.com. Sarebbe ora di avere qualche bella legge che costringa le aziende di moda a non danneggiare il pianeta e le persone? Molti pensano proprio di sì.

3. PITTI UOMO A FIRENZE: ANCHE IL GUARDAROBA DI LUI SI TINGE DI VERDE

 

Da qualche edizione la fiera della moda uomo per eccellenza si sta dedicando alla sostenibilità. Segno che, con qualche ritardo rispetto alla moda femminile, anche in questo ambito la sensibilità cresce (finalmente!). Per ogni edizione la giornalista e curatrice Giorgia Cantarini seleziona brand emergenti e sostenibili che vengono poi ospitati durante la kermesse fiorentina per farsi conoscere. È un appuntamento importante perché è una fiera dedicata ai buyer, i compratori. Ho fatto quattro chiacchiere con Giorgia per sapere chi ha invitato quest’anno in questo articolo su Marie Claire. Mentre qui su Lifegate c’è un altro riassunto di tutto il green di Pitti Uomo visto dalla giornalista Ilaria Chiavacci.

4. ISPIRAZIONI POP: SERVONO DAVVERO I CONSIGLI DELLE CELEBRITÀ PER DIVENTARE PIÙ SOSTENIBILI?

 

La faccenda è questa: sono sempre molto sospettosa quando qualche vip, cantante o attore che sia, si mette d’impegno per insegnare alle persone come vivere in modo più sostenibile. Soprattutto se la celebrità in questione viaggia su aerei privati e vive in case che consumano tanta energia quanto il Nicaragua. Parliamo della cantante Billie Eilish (contro cui non ho nulla di personale). Dopo aver sfoggiato un abito Gucci frutto di upcycling al Met Gala, ha organizzato durante il suo tour alcuni eventi di sensibilizzazione su clima e consumi, con tavole rotonde e anche swap party. Vogue Business si chiede – come me – se siano davvero efficaci queste iniziative da parte delle celebrità. Hanno qualche effetto convincente sui fan? Almeno Billie è vegana. Le diamo il punto coerenza.

5. LA BIENNALE D’ARTE DI VENEZIA: I PERCORSI GREEN SUGGERITI

 

Fino al 27 novembre si può visitare la grande esposizione internazionale dal titolo “Il latte dei sogni” sotto la direzione di Cecilia Alemani (qui una bella intervista alla prima curatrice donna italiana della Biennale). La Biennale può spaventare perché è davvero una mostra abnorme, che conta anche innumerevoli esposizioni collaterali. Se vi ci avventurate, partite dai riassunti ben fatti da Artribune per farvi un’idea: cosa vedere assolutamente e la loro classifica di top e flop, nonché tutti i leoni assegnati se siete appassionate di premi. Inoltre, segnalo alcuni articoli che raccontano le opere dedicate all’ambiente, al clima e alla sostenibilità: Repubblica ha messo insieme un percorso ad hoc (articolo su abbonamento); qui un altro mini tour con spiegazione del Padiglione Italia; l’artista sudcoreano Chun Kwang Young ha creato un’installazione di libri di scarto con architettura di Stefano Boeri; e c’è anche la prima installazione carbon neutral di Arcangelo Sassolino ispirata a Caravaggio.

6. SICCITÀ: A CHE PUNTO È LA MODA COI CONSUMI IDRICI?

 

Mi sono data il compito di inserire ogni volta almeno una notizia dedicata alla crisi climatica. Perché la moda non è un contenitore a sé stante, ma è profondamente connessa alla crisi planetaria che stiamo vivendo. In generale posso suggerire tre newsletter gratuite, scritte bene, per chi vuole prendersi l’impegno di capirne di più su ambiente e clima: Il climatariano del direttore di Lifegate Tommaso Perrone, Areale del giornalista di Domani Ferdinando Cotugno, e Il colore verde di Nicolas Lozito, giornalista de La Stampa.
La notizia di giugno è indubbiamente la siccità: come siamo arrivati a questo punto di emergenza? Lo spiega bene in questo articolo su Repubblica Antonello Pasini, fisico del clima presso il CNR (dai, è breve, leggetelo).
E non ho potuto fare a meno di pensare che la moda è un’industria estremamente assetata, con consumi idrici davvero importanti. Tanto che oltre alla carbon footprint di un capo di abbigliamento, si parla anche di water footprint – impronta idrica, ovvero si misura quanta acqua è servita per produrre quel pezzo dal campo al negozio. Secondo gli studi della Ellen MacArthur Foundation vengono impiegati ben 93 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno dall’industria tessile tra coltivazione e produzione, un volume pari al 4% dell’acqua potabile globale. State pensando ai vostri jeans? Vero, il denim è spesso messo sotto accusa per il consumo d’acqua necessario per produrlo, ma anche l’impatto dei nostri lavaggi casalinghi non scherza. Vale la pena ricordare allora due belle storie italiane di denim sostenibile: quella della costante innovazione tecnologica firmata Candiani e l’upcycling di pezzi vintage di Blue of a Kind.

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